C’è sempre una storia da raccontare – Un dolce longevo ed antichissimo

Altro dolce tipico del periodo autunnale, in particolare della festività di Ognissanti e del mese di Novembre, è senza dubbio il Mostacciolo, protagonista di quella trilogia umbra della dolcezza cui si accennava nell’articolo precedente. Come il Brustengo, il Mostacciolo è il simbolo dell’autunno perché ne incarna ed evoca i profumi, le suggestioni sensoriali: la vendemmia, il mosto sanguigno e zuccherino, l’aroma caldo ed avvolgente delle spezie.

Alla base della preparazione, fin dagli inizi, vi era (e vi è ancora) il MOSTO, talmente preponderante da attribuire il nome alla ricetta: il prodotto per eccellenza della vendemmia e del lavoro umano, un liquido in trasformazione ed in fermentazione e che tuttavia non è ancora vino, dalla forte componente zuccherina. Si tratta di un ingrediente estremamente versatile, utilizzabile, con i giusti accorgimenti , sia nelle ricette salate (cotto a lungo e ristretto poteva essere un’ottima glassa di accompagnamento per piatti a base di carne o selvaggina), sia come sciroppo dolce in periodi storici in cui lo zucchero scarseggiava. Il mosto è da sempre ingrediente poliedrico e multiforme, tanto da trovare felice collocazione, fin dall’antichità, sia nei sontuosi convivi di nobili ed aristocratici, sia sulla più umile tavola del contadino o del popolano comune.

Il cibo serba nei secoli memoria indelebile di storie e di uomini: spesso è esso stesso contenitore, scrigno prezioso di antico e moderno, “voce narrante” di un racconto incredibile fatto di eredità da riesumare e custodire. Non c’è forse, in Umbria soprattutto, un dolce più “parlante” di questi piccoli biscotti dagli antichissimi e discussi natali, le cui origini si rintracciano nella storia della Roma arcaica, anche se ancor oggi la paternità effettiva di questa ricetta è dibattuta ed incerta. Sappiamo, da fonti storiche, che i Romani conoscevano ed apprezzavano due versioni del Mostacciolo: il Mustaceum era una focaccia dolce cotta in foglie di alloro, pietanza di buon auspicio che si consumava e regalava ai convitati durante i banchetti, gesto di riguardo per onorare l’ospite che si congedava, ma anche in occasioni di matrimoni, in segno di prosperità e fertilità per i novelli sposi. Non possiamo ovviamente sapere da chi nacque primariamente l’idea di integrare il mosto cotto ad un impasto di farina, grasso animale, spezie (anice principalmente) e frutta secca, ma non mancano testimonianze storico-letterarie ed attestazioni riguardanti la fama di questo dolce poliedrico: perfino l’integerrimo Catone, nel suo “De Agricoltura”, si sofferma a parlarne e a descriverlo dettagliatamente. Lo stesso Cicerone sicuramente lo conobbe ed apprezzò. Gli antichi romani ci tramandano memoria di una ulteriore variante del Mustaceum: la chiamavano Mortaiolo (o Mortarolo) ed era un goloso biscotto lavorato con una farina di mandorle finemente pestate e polverizzate al mortaio (da cui il nome) e arricchita poi con spezie, miele e frutta secca. 

Geografia di una Star: fama e diffusione del Mostacciolo in Italia (e oltre!)

Il mostacciolo è un dolce multiforme, noto ed apprezzato in molte zone della penisola italiana, con alcune variazioni riguardanti il nome, la composizione interna, l’occasione in cui si consuma: nell’Italia centrale queste stuzzicanti ciambelline si preparano e consumano principalmente per il mese di Novembre, come biscotto secco arricchito da zucchero e spezie o in una versione più morbida, caratterizzata da un impasto a lenta lievitazione (simile a quello della brioche) ma sempre arricchito da mosto cotto, anice e uva sultanina. In Campania, invece, il Mustacciuolo è il dolce romboidale simbolo del periodo Natalizio e, per l’occasione, viene arricchito e reso ancora più sontuoso e goloso da uno speciale “sarcofago” di ottimo cioccolato. Val la pena spendere qualche parola, poi, per Sas Pabassinas (o Pabassini) dolcetto sardo romboidale decorato con una deliziosa glassa zuccherina che, tradizionalmente, si consuma per Sa Festa de Is Animas (Ognissanti!). Gli ingredienti? Ovviamente alla base dell’impasto c’è, ancora una volta, la Sapa, nome con cui in Sardegna si identifica il mosto cotto!  Insomma, il Mostacciolo è una vera e propria Star della cucina tipica regionale italiana, gode di un’ottima salute e reputazione in tutto il territorio della penisola, è apprezzato e consumato da tutti ed è simbolo delle principali Festività. E’ quindi lecito azzardare e supporre l’esistenza di contaminazioni oltre i confini nazionali e alcune ricette straniere sembrano suggerirlo. I Lebkuchen, ad esempio, i dolcetti speziati natalizi di Norimberga (dei quali, ad onor del vero, esistono altre numerose sotto-varianti) condividono con il mostacciolo nostrano l’impasto a base di farina di mandorle, miele e spezie, con una nota però molto più vistosamente agrumata, conferita dall’arancio e dal cedro candito ed accentuata dalla presenza del cacao amaro e da una avvolgente glassa al cioccolato. Il nome Lebkuchen potrebbe fare riferimento sia al lessema tedesco Lebbe (nel significato di “dolce” o “molto dolce”) o derivare dal latino “libum” (Focaccia): già a partire dal XIII secolo i Monaci di Norimberga erano soliti preparare, infatti, una focaccia a base di miele e sciroppo ricavato da erbe officinali. Che possano esistere legami con il Mustaceum romano? Anche se è difficile ricostruire con estrema accuratezza la storia di ricette così antiche, creare supposizioni è pur sempre legittimo.

La Santa Pietanza: I Mostaccioli e San Francesco

Leggenda narra che San Francesco avesse una passione sconfinata per i mostaccioli. Quando si avvicinò per lui l’ora decisiva, indifferente quasi all’idea della morte che lo attendeva e completamente rapito dal ricordo olfattivo di quei deliziosi dolcetti, pregò con scoramento l’amica e nobildonna romana Jacopa de Settesoli affinché lo onorasse della sua visita e recasse con lei gli amati biscotti “boni e profumosi” consumati durante il soggiorno romano del Povero di Assisi e che Jacopa era solita preparare per Chiara e le consorelle.  Ne domandò e ne pretese fino alla fine, non potendosi congedare dalle carni mortali e dal mondo senza prima aver esaudito l’innocente peccatuccio di gola. Ben si può comprendere, allora, la fama ed  il potere consolatorio di questo dolcetto:  perfino un Santo austero ed intransigente della caratura dell’Assisiate non seppe resistere a questa ultima, decisiva tentazione! I Mostaccioli, entrando nella storia Francescana (e quindi nella storia Umbra) come simbolo di quel conforto che nasce e deriva dall’amicizia e la convivialità, diventano universali, affermandosi come dolce dalle infinite e golose varianti in tutta la penisola e, come abbiamo potuto constatare, forse anche oltre.

Questo singolare e (per alcuni aspetti) bizzarro aneddoto legato alla vita di San Francesco cela in realtà significati profondi. Comprendiamo come in determinate circostanze e in certi momenti, il cucinare e l’atto stesso del mangiare, scevro di qualsiasi automatismo e banalizzazione, acquisisca una sua peculiare sacralità,  divenendo vero e proprio atto di fede. Si tratta di un gesto e di una ritualità (del consumare un pasto, specialmente gradito) che stabilisce e suggella un legame eterno, profondo, tra le necessità e i desideri legittimi del corpo e della carne e quelli più alti e spirituali del cibo come nutrimento sano ed indispensabile, “carburante per l’anima” e conforto per il vivente (e per il morente!). Un nutrimento tanto più necessario quanto più pregevole e degna è la materia prima offerta dalla generosa Natura, che lo stesso Francesco non può che tanto amare come emanazione di quel Sire bono e onnipotente in nome del quale ha operato tanti difficili cambiamenti e pesanti rinunzie. In questo caso il cibo è un ponte, un ibrido tra una dimensione più umana e terrestre, alla quale San Francesco rimane con tenacia aggrappato nel bisogno di rivedere l’amica Jacopa coi suoi mostaccioli, e quella celeste e “santa”, proprio quella festa (dei Santi) a cui è legata la gran parte della tradizione di questo biscotto “speciale”.

Il Mostacciolo è il dolce della malattia per Frate Francesco e della consolazione. Malato era la prima volta che li assaggiò a Roma presso l’amica Jacopa, malato è ora, purtroppo irrimediabilmente. Ma il commiato dalla vita non può avvenire senza prima aver ricevuto il conforto e l’affetto della nobildonna; così a lei spetta il compito arduo e decisivo di portare il “panno cinerino” per avvolgere i resti mortali del caro amico e i “mostaccioli profumosi”. Un sudario e un dolce: mai richiesta fu più bizzarra e ambigua. Il desiderio di Francesco trova significazione invece nel concetto stesso di Vita e Morte come intesi dal sant’uomo: la continua mescolanza dell’una e l’altra è per lui espressione della sublime sintesi della Creatura e del Creatore, elette ed assolute emanazioni dell’Altissimo, entrambe dotate di incredibile forza. In questa prospettiva il Cibo diviene significante e significato, mediatore tra questi due mondi all’apparenza distanti ed incomunicabili (l’atto stesso del consumare un pasto durante o dopo le esequie di un caro scomparso, ad esempio, sopravvive ancora oggi in diverse culture del mondo contemporaneo).

LA RICETTA

Vi propongo, oggi, una versione dei Mostaccioli estremamente casereccia, basata su una ricetta “a sentimento” (come, un tempo, affermavano le nostre nonne), ricavata da una vecchia agenda di mia madre. Si tratta, comunque, di una ricetta ben collaudata ma starà alla vostra intuizione lavorare l’impasto ed “aggiustare” dosi e proporzioni. Una formula modellata dalla vostra sensibilità per onorare un dolce con una storia piena di sentimentalismo ed emozioni!

INGREDIENTI

Un bicchiere di olio di semi di girasole

Un bicchiere di zucchero

50/100 gr. di miele ( la parte zuccherina va regolata tenendo in considerazione anche la presenza del mosto)

Un bicchiere di Mosto cotto

Una cartina di ammoniaca per dolci

anice (se è di vostro gusto)

un po’ di uvetta (tenuta precedentemente in ammollo in acqua tiepida e ben strizzata)

frutta secca a piacere (consigliate le noci in granella)

farina di mandorle, farina tipo 00 quanto basta per rendere l’impasto morbido e lavorabile

PROCEDIMENTO

Unire in una ciotola tutti gli ingredienti liquidi ed incorporare le polveri, lavorandole fino ad ottenere un impasto morbido e umido, che deve ricordare la consistenza della pasta del pane. Prestare attenzione alla farina, aggiungendo a poco a poco la quantità necessaria per ottenere questo risultato. Ricavare dall’impasto così ottenuto, trasferendosi su una spianatoia, delle treccine o ciambelline (anche note “volgarmente” come roccette) che, decorate con cristalli di zucchero, andranno poi cotte in forno statico a 175° per 15/20 minuti. La ricetta “standard”  non stimola particolarmente la vostra creatività o non vi sembra abbastanza golosa? Nessun problema! Potete decorare i vostri Mostaccioli con una ghiaccia a base di zucchero a velo, confettini edibili o, come tradizione napoletana insegna, una invitante e mai banale glassa al cioccolato.